Scommetto che anche quest’anno ti ha assalito il senso di colpa quando è arrivato il momento di andare in vacanza?
E magari hai anche iniziato a chiederti: ho lavorato abbastanza per meritarmi questo momento di pausa? Cosa penserà di me la gente mentre pubblicherò le foto dalla spiaggia o dalle vette delle montagne?
Già, non tutte le persone riescono a godersi appieno le vacanze. Sono (o forse siamo) tormentate dal fatto di essere improduttive.
Preoccupate al pensiero di avere il telefono di lavoro spento, il pc in standby da giorni o di non essere riuscite a guardare l’ultimo video del corso appena acquistato. E tutto questo perché? Perché ci godiamo questo “lusso” di passare qualche ora al mare o in giro per una nuova città.
Ma davvero ci si può sentire in colpa per il solo fatto di riposarsi?
Ne ho parlato qualche giorno fa in un post. Che ci piaccia o no, viviamo nell’era dell’iperproduttività, dove il valore delle persone è misurato in base alla loro capacità produttiva (eh sì, questa è una di quelle cose su cui bisognerebbe lavorare per la riorganizzazione di una buona società, magari prima delle prossime elezioni). Ogni minuto trascorso a riposarsi, anche se meritato, viene vissuto con una certa dose di senso di colpa e di insoddisfazione personale. (Non è così per tutti eh, e direi anche per fortuna).
Ma proviamo ad andare più a fondo.
Il culto dell’iperproduttività
Se nel passato, era il tempo libero a indicare il valore di una persona, oggi sembra quasi che le persone siano rappresentate da ciò che producono. Se riesci a ritagliarti del tempo libero semplicemente non lavori abbastanza. Non hai aumentato il tuo fatturato, allora è perché non sei riuscito a lavorare di più e le cose non ti vanno così bene. Accontentarsi di ciò che si ha non è mai una tesi plausibile.
E quindi cosa succede? Succede che si finisce con il caricarsi di un numero infinito di mansioni e tasks al solo scopo di evitare di sembrare poco seri, poco professionali o poco capaci.
E comincia la gara a chi ha il progetto più grosso, il CV più ciccione, a chi ha occupato i piani più alti dell’azienda, a chi ha studiato nell’università più rinomata, chi ha fatto il tirocinio più cazzuto, chi ha girato più il mondo per lavoro (e non solo). Tutto per poter dire e potersi dire di essere qualcuno.
Solo per potersi sentire persone di successo e degne di attenzione in questa società.
Ma quanto è sbagliato tutto questo? E vogliamo parlare dei social?
Pervasi di post e video sui #5 segreti per avere successo e sui #10 consigli su come organizzare al meglio il proprio tempo per essere più produttivi. C’è chi condivide le innumerevoli attività che svolge in una sola giornata e chi mostra fiero la lunghissima lista di libri che ha letto o i corsi che ha seguito durante il mese (sempre accompagnati da preziosissimi segreti per leggere e studiare più rapidamente).
Ma come diamine fate a far sembrare tutto così bello e rilassante? Che io ogni volta che devo preparare un esame rischio l’esaurimento nervoso. “Allora Elisa dovresti solo cercare di lavorare la mattina e concentrare tutto il tuo lavoro in quelle 5 ore così poi di pomeriggio studi”. Non vi dico come ci arrivo agli esami!
E poi, siamo sicuri che mostrarci sempre produttivi e performanti ci faccia apparire persone più serie o professionali?
A dire la verità no. Siamo umani. Abbiamo esigenze e anche limiti, e lo sappiamo bene. Tutto quello che si discosta da questo pensiero spesso lo percepiamo come poco autentico.
Dobbiamo cercare di riappropriarci della normalità, anche sui social.
Perché dovremmo vergognarci quando su Instagram condividiamo i nostri momenti di pausa? Eppure succede di condividere la lettura di un buon libro (che poi può fare anche schifo ma non lo sai fino a che non lo finisci), la musica che ascoltiamo (e anche su quella avrei da ridire) oppure il piatto che ha fatto gridare di gioia le nostre papille gustative.
“Sei sempre in vacanza”. Eccallà.
Questa società ci porta a pensare di meritare una pacca sulla spalla solo quando completiamo tutte le tasks che abbiamo segnato in agenda, quando terminiamo tutte le pagine che avevamo pianificato di studiare, o quando riusciamo a pulire la casa mentre facciamo tutte queste cose.
Questo atteggiamento è deleterio e, professionalmente parlando, il rischio è quello di andare in burnout.
Eppure una cosa la pandemia ci ha insegnato. Ci ha insegnato che salvaguardare la nostra salute mentale è più importante, ma la verità è che c’è ancora tanto lavoro da fare in questo senso.
La time anxiety
Molti di noi hanno una seria difficoltà a godersi il tempo libero in generale. “Avrei potuto leggere quella mail” o magari scrollare un po’ il feed.
Nella “società della performance”, riposare genera ansia.
Come sostiene Factanza in un post in collaborazione con Io Donna, quando siamo in vacanza non riusciamo ad abituarci al riposo. Ci tormentiamo nei momenti di ozio perché sentiamo il dovere di riempire le nostre giornate di attività: perdere tempo è un sacrilegio anche in vacanza. Così riempiamo le giornate di tour, escursioni, impegni e km da fare.
Questi sono gli effetti della time anxiety. Si tratta della paura di non sfruttare appieno ogni secondo che si ha a disposizione per il terrore di perdere tempo prezioso che non ci verrà restituito. Per questo sentiamo il dovere di pianificare e ottimizzare il nostro tempo al fine renderlo produttivo.
Ma perché succede questo?
Anche la time anxiety è figlia della cultura della produttività. Una mentalità di questo tipo ovviamente non contempla i bisogni di ciascuno di noi.
Ma non tutti dobbiamo e vogliamo riempire il tempo allo stesso modo. Ognuno di noi ha i propri bisogni e i propri tempi per svolgere determinate attività.
Misurare il proprio valore in base a quante attività svolgiamo in un determinato lasso di tempo è sbagliato perché non tiene conto delle peculiarità e delle esigenze di ciascuno di noi.
Ecco che dovremmo seriamente ripensare il concetto di “perdere tempo”, a cui noi spesso e volentieri diamo un’accezione negativa.
Non dobbiamo criticarci se decidiamo di staccare del tutto dal lavoro o dallo studio e riposarci. Se abbiamo voglia di dormire alle 3 del pomeriggio o, semplicemente, preferiamo stare a casa ad annoiarci invece di uscire.
Purtroppo la società in cui siamo cresciuti ci ha insegnato che riposarsi è sinonimo di pigrizia, per cui è normale non riuscire ad apprezzare il riposo.
Essere improduttivi è un nostro diritto (cazzeggiare anche)
Riconoscere questo meccanismo mentale e la sua tossicità può aiutarci a compiere un primo passo verso la consapevolezza che non tutti i secondi della nostra vita debbano essere trasformati in produttività.
Smettiamo di vivere i momenti di riposo come una perdita di tempo.
(Ma che poi chi è che davvero se ne pente? Dai io non ci credo. Non rimpiango un solo istante passato a fare la larva sul divano.)
Dobbiamo ricordare che questi istanti ci permettono di prenderci cura di noi stessi. Meritiamo di volerci bene non solo quando raggiungiamo un traguardo, quando completiamo tutte le attività della nostra agenda ma anche quando facciamo le cose che ci piacciono o quando non ne facciamo proprio.
Anche perchè diciamoci la verità: le migliori idee arrivano quando non stiamo facendo nulla. Quando diamo alle idee lo spazio necessario per svilupparsi.
La creatività nasce da un foglio bianco, ma anche da una mente libera.
E io sono fan degli spazi bianchi.
Quindi io dico sì al cazzeggio, al rallentare se ne sentiamo il bisogno, all’essere i secondi ma anche gli ultimi, al non voler fissare nuovi obiettivi a settembre, al non voler raddoppiare il fatturato, alle pause, ai romanzi, ai concerti, alla cioccolata calda, alla castagne e al plaid. (Sempre se questo è ciò che ci fa stare bene).
Per tutto il resto ”stic***i” va sempre bene.